Una cena etnica in cucina può trasformarsi in una sorpresa non desiderata: sapori nuovi, ma ingredienti diversi da quelli dichiarati. In molti supermercati italiani oggi è facile trovare scatole e buste etichettate come prodotti cinesi, giapponesi, indiani o mediorientali, ma non sempre le parole sull’etichetta corrispondono a ciò che finisce nel piatto. Un team del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa ha provato a verificare la corrispondenza fra etichetta e contenuto usando tecniche molecolari avanzate, con risultati che chiedono risposte sulla sicurezza e sulla trasparenza della filiera.
Il metodo che svela gli ingredienti nascosti
I ricercatori hanno applicato il metabarcoding, una tecnica di analisi del DNA capace di identificare le specie presenti in un campione miscelato. Questo approccio non si limita a cercare singoli elementi già sospettati, ma ricostruisce l’elenco delle presenze biologiche, mostrando anche tracce minime che i controlli tradizionali possono ignorare. Nel campione messo a studio sono stati esaminati 62 prodotti etnici preconfezionati, provenienti da categorie sia di origine animale sia vegetale. Un dettaglio che molti sottovalutano: il metodo cattura anche contaminazioni accidentali, ma rende visibili frodi intenzionali e omissioni.

I dato più significativo è che oltre il 70% dei prodotti presentava discrepanze con quanto indicato in etichetta. Nei prodotti di provenienza animale la percentuale è salita al 78,4%, mentre nei prodotti etichettati come vegetali è stato trovato DNA animale al 100%. In alcuni casi un pacco venduto come “solo pollo” conteneva tracce di anatra e cervo; in altri, un piatto a base di riso mostrava molluschi non riportati in etichetta. Un aspetto che sfugge a chi vive in città: le catene logistiche internazionali possono mescolare lotti e ingredienti senza che l’informazione aggiornata arrivi al consumatore.
La tecnica non è pensata per criminalizzare, spiegano i tecnici, ma per offrire uno strumento di verifica più sensibile: consente infatti di distinguere assenze dichiarate (per esempio gamberi o uova non rilevati) e presenze non segnalate, fornendo una fotografia fedele delle miscele alimentari.
Rischi per la salute, scelte dietetiche e mercato
Le discrepanze emerse non sono solo un problema di correttezza commerciale: mettono in gioco la sicurezza di chi ha allergie o segue diete precise. Ingredienti come pesce, molluschi o uova possono scatenare reazioni anche se presenti in tracce, e per chi è vegetariano, vegano o osserva prescrizioni religiose la presenza non dichiarata di proteine animali cambia la natura del prodotto. Un dettaglio che molti sottovalutano riguarda la comunicazione: etichette vaghe o generiche non aiutano il consumatore a prendere decisioni informate.
La ricercatrice Alice Giusti dell’Università di Pisa sottolinea che i risultati devono servire come strumento di tutela e non solo come sanzione: l’obiettivo è migliorare la tracciabilità e le procedure di controllo lungo la filiera, in modo da rafforzare la fiducia nel mercato dei prodotti etnici, in espansione in Italia. Un aspetto che sfugge a molti è l’impatto sulle piccole imprese importatrici, che possono subire danni d’immagine anche quando l’errore dipende da passaggi intermedi della catena logistica.
Per il consumatore la lezione è pratica: servono strumenti di informazione più rigorosi e controlli mirati che includano metodi molecolari. Nel frattempo, chi ha esigenze alimentari specifiche dovrebbe prestare attenzione alle etichette e, quando possibile, preferire prodotti con tracciabilità dettagliata. In questi mesi la ricerca apre una strada per trasformare la curiosità gastronomica in un’esperienza più sicura: la scoperta di nuovi sapori resta possibile, purché accompagnata da strumenti che garantiscano ciò che c’è dentro la confezione.
